Dodicesimo giorno prima delle Calende di luglio
Il giorno seguente servo e padrone erano di nuovo all'opera.
- Non capisco proprio cosa ci andiamo a fare, all'anfiteatro! - si lamentava Castore, sbuffando dietro la lettiga per tenere il passo coi vigorosi portatori nubiani.
Il quartiere in cui sorgeva l'anfiteatro di Statilio Tauro era uno dei più moderni di Roma: praticamente tutti gli edifici risalivano al massimo all'ultimo secolo, quando l'urbanizzazione progressiva aveva reso necessarie delle strutture stabili in muratura, al posto di quelle arcaiche, di legno. Così, già in età repubblicana, erano sorti a spese di Pompeo il Teatro e i Portici, mentre Cesare accarezzava il progetto, in verità rimasto tale, di deviare il corso del Tevere per unire il Campo Marzio a quello Vaticano in un'unica grande spianata.
Augusto, poi, si era dedicato per due decenni a trasformare il sito in un'autentica “città nuova”, facendo costruire o restaurare un complesso imponente di edifici: i portici di Ottavia, il tempio di Apollo Sosiano, le terme di Agrippa, i teatri di Balbo e di Marcello, il Pantheon e l'immenso orologio solare che elevava come gnomone uno degli obelischi portati dall'Egitto dopo la vittoria su Cleopatra.
Proprio per questa sua attività di instancabile edificatore, di Augusto era stato detto, alla sua morte, che lasciava Roma di marmo, avendola trovata di fango. La grande struttura costruita da Statilio Tauro faceva appunto parte di questo vasto progetto innovatore ed era sorta malgrado la sorda opposizione dei conservatori, che, timorosi di un rilassamento dei costumi, avrebbero preferito continuare a far svolgere i ludi nel Foro, come si usava nei tempi antichi.
Aurelio non condivideva i timori dei retrogradi. Per lui, acerrimo nemico degli spettacoli gladiatori, non cambiava molto se quei duelli sanguinari che tanto lo disgustavano avevano luogo per strada o in uno spazio apposito.
Fu quindi con interesse tiepido che il patrizio ascoltò i progetti ambiziosi degli ingegneri dell'anfiteatro di Statilio circa un complicato sistema di ascensori per le belve e altre astute trovate per rendere i giochi ancor più scenografici: con un gesto brusco, interruppe le spiegazioni dei tecnici e, messi tutti a tacere, avanzò solitario nella sabbia dell'arena.
- Domine, che fai impalato lì in mezzo? - lo interrogò Castore.
- Tento di ricostruire le ultime mosse di Chelidone, prima che stramazzasse al suolo - spiegò Aurelio, sforzandosi di ricordare con esattezza quello che aveva visto nel giorno dei giochi: dal suo posto nella tribuna, poteva ammirare la nuca della bella Messalina sul palco imperiale, e scorgere contemporaneamente il campionissimo sulla destra. Quindi il gladiatore doveva trovarsi proprio dove si trovava lui ora, quando era stato colpito.
- Mettiti qui, Castore, e alza il braccio, come se avessi in mano un tridente! - comandò.
Il servo si irrigidì in una posizione statuaria, sentendosi sommamente ridicolo.
- Nemmeno fossi un manichino... - bofonchiò tra i denti, subito zittito dal padrone, che prese a tastargli il collo, nel punto in cui aveva visto la ferita sul cadavere di Turio.
- Ehi, mi fai il solletico! - protestò il liberto, piuttosto irritato.
- Fermo così, non muoverti! - ingiunse il senatore, misurando la distanza dagli spalti.
Da dove avrebbe potuto partire il dando mortale? Se fosse stato scagliato dalle tribune, sarebbe penetrato dall'alto. No, di certo non era andata in questo modo: il graffio era piccolissimo, e senza sbavature. Se la sua supposizione era esatta, l'ago avvelenato doveva aver percorso un tratto quasi rettilineo...
L'occhio acuto del patrizio percorse lo spiazzo deserto, fino a fermarsi sugli ingressi dei sotterranei.
- Domine, mi sto intorpidendo! - si lamentava il greco, sempre immobile col braccio levato.
Ma già Aurelio correva verso il bordo dell'arena.
- Qui! Facciamo una prova, presto! - gridò al povero
Castore, che sopraggiungeva sgranchendosi i muscoli indolenziti. - Rimettiti com'eri e sta' fermo!
- Ancora! - gemette il liberto, chiedendosi che cosa avrebbe potuto pretendere dal padrone in compenso di tanti sforzi.
Aurelio trasse dalla manica uno stelo vegetale, cavo al suo interno, e vi introdusse un pezzetto di papiro arrotolato; poi gonfiò i polmoni al suo massimo e provò a soffiare. Il dardo svolazzò pigro nell'aria e andò a planare, con lente giravolte, a una certa distanza dal servo che attendeva immobile.
- Ne ho ancora per molto, padrone? Tra un po' mi prenderanno per uno spaventapasseri! - urlò Castore, spazientito.
- Forse si potrebbe appesantirlo un poco... – ragionava intanto il patrizio, perso nelle sue elucubrazioni.
Recuperato il proiettile, lo rinforzò con un minuscolo sassolino, bene incastrato nella punta. Stavolta la freccia non volteggiò in aria, ma arrivò dritta quasi ai piedi di Castore.
- Ai gladiatori, con gli esercizi a cui si sottopongono, non manca certo una forte capacità polmonare: con un'arma come questa, uno qualsiasi di loro può aver conficcato facilmente la saetta nel collo di Chelidone - concluse Aurelio, pienamente soddisfatto.
- Ma perché mai qualcuno avrebbe dovuto colpire Chelidone con una freccia avvelenata? - obiettò Castore. - Ti stai fissando su questo particolare, come sulla serva di Mutina, che si è rivelata un buco nell'acqua! Eppure hai già parecchi elementi in mano: sai per certo che il nostro campione era stato drogato e che sui ludi si organizzavano scommesse truccate, e per di più abbiamo appurato che Aufidio non ne era all'oscuro, almeno a giudicare da quel che si è messo da parte, troppo per un semplice lanista, anche se a capo della scuderia dei gladiatori imperiali. Stento a capire perché non lo fai arrestare subito!
- Non basta: ci sono alcuni particolari che non quadrano. Controlliamo di nuovo i sotterranei.
- Domine, ti ho già detto e ripetuto che nessuno vi ha accesso, salvo gli addetti ai lavori! Le visite agli atleti prima dei combattimenti sono assolutamente vietate, e l'ingresso durante i giochi è proibito a tutti.
- C'è qualcosa che non capisco... - scosse la testa il patrizio.
- Invece è tutto chiaro, padrone: Sergio ha creato un campione dal nulla, imbastendo la leggenda dell'eroe trace. Chelidone, in effetti, aveva dei numeri, e si è conquistato in poco tempo un prestigio del tutto eccezionale: le scommesse fioccavano non solo da tutta l'Urbe, ma persino dalle provincie, portate dai piccioni viaggiatori... Ed ecco che, quando il campionissimo è al culmine della sua gloria, il nostro avvocato ritira dalla banca una somma più che consistente e va a puntarla su un povero disgraziato che conosce da tempo, perché ha contribuito a farlo condannare con una falsa testimonianza. Inoltre, guarda caso, Maurico è ammanicato proprio con l'amichetta dell'invincibile gladiatore, e Nissa, la sera prima dello scontro, fa bere a Chelidone una pozione capace di metterlo fuori combattimento per un bel pezzo...
- Chelidone, però - osservò Aurelio - è entrato nell'arena baldanzosamente, come se la pozione non avesse fatto effetto, e questo non era nei piani... Per impedire che il campione vincesse l'incontro, qualcuno si è visto costretto a finire il lavoretto cominciato da Nissa...
- E ha esagerato con la dose - concluse Castore. – Così il reziario ci ha lasciato la pelle.
- Non era di sicuro quel che volevano: Chelidone, a sua insaputa, doveva diventare la gallina dalle uova d'oro. Coi riflessi rallentati, l'asso dei ludi avrebbe perso l'incontro, ma la folla lo amava troppo per chiederne la morte col pollice verso...
- Sì, non si trattava dei munera sine missione, in cui nessun perdente ha il permesso di abbandonare vivo il campo. Nell'arena, la condanna a morte colpisce soprattutto la codardia, e Chelidone di coraggio ne aveva da vendere. Se fosse stato sconfitto, di certo gli spettatori avrebbero gridato: Missum!, mandalo via, anziché: Iugula!, scannalo. E certamente Cesare, malgrado la sua antipatia per i reziari, avrebbe concesso la grazia...
- Così, quando il pubblico, deluso dal suo idolo, l'avesse ormai dimenticato, Chelidone sarebbe tornato nell'arena più forte di prima, permettendo a Sergio, il suo protettore, di guadagnare un'altra bella sommetta. Comunque, anche così Maurico e Aufidio hanno potuto intascare il loro gruzzolo - considerò il senatore.
- Chiamalo gruzzolo, era un vero patrimonio! – ribatté Castore. - E pensare che io ci ho ricavato soltanto una manciata di nummi...
- Non avrai puntato su Quadrato! - si stupì Aurelio.
- Be', veramente... - ammise il greco.
- Da chi ti veniva la soffiata, Castore? Qualcuno, dunque, doveva sapere...
- Non è stato un allibratore, se è questo a cui stai pensando. La mattina dei giochi, uno di quei perdigiorno che si divertono ad accompagnare i gladiatori nelle loro scorribande fece alcune allusioni salaci sulla notte brava del campionissimo, sottintendendo che non si era accontentato di Nissa. Non gli detti troppo credito, naturalmente, ma pensai che poteva valer la pena di rischiare qualche sesterzio sul suo avversario. Ero sicuro di buttare i soldi della puntata, invece...
- Invece un provvido omicidio ha sistemato tutto! - sbottò il padrone.
- Non vorrei essere nei panni dello sprovveduto sicario che ha commesso un errore tanto marchiano. Sergio Maurico non è certo tipo da perdonarglielo; prima o poi quel disgraziato pagherà caro lo scotto della sua scempiaggine.
- Potrebbe averlo già pagato! - esclamò Aurelio, sobbalzando. - Pensa a Turio, che pretendeva di essere il caro, unico amico del campione: magari è stato proprio lui a ucciderlo! Torna in caserma, presto, forse abbiamo in mano il bandolo della matassa!
Castore non si dimostrò entusiasta di obbedire.
- Rilutto a rimettere piede al Ludus Magnus, padrone: Arduina ha fin troppa simpatia per me, e, come si è visto per Chelidone, la sua predilezione non porta fortuna!
- A proposito di Arduina, pensi davvero che sia del tutto estranea al giro? Forse sarebbe il caso di prendere in considerazione anche lei, come complice.
- In verità, non mi sembra tanto astuta da fare il doppio gioco, domine, e sospetto pure che il denaro le interessi poco. Quello che vuole è lo scontro, l'ebbrezza del combattimento, il sangue, e soprattutto il plauso della folla. È troppo emotiva e violenta per concepire certe sottigliezze...
- Ma se invece fosse una spia? Non sarebbe la prima volta che uno schiavo di nobili origini tenta di vendicare il suo popolo ridotto in servitù...
- Trucidando gladiatori traci? - lo guardò il greco, scettico.
- Hai ragione, è alquanto improbabile - ammise Aurelio di malavoglia.
I due, intanto, avevano lasciato l'anfiteatro in lettiga e Castore, anziché seguire a piedi, si era bellamente accomodato sui cuscini accanto al padrone, accampando uno stiramento dei muscoli dovuto alla forzata immobilità.
- Ecco domine, io scendo qui - disse poco dopo, additando il boschetto di platani circondato dai portici di Pompeo, dietro a cui sorgeva il grande teatro della pantomima. - Durante le indagini ho fatto conoscenza di una graziosa attrice, e le informazioni che mi fornisce possono essere preziose per la tua inchiesta - assicurò il greco, sparendo tra le fontanelle del giardino.
Aurelio non protestò: la defezione di Castore, una volta tanto, giungeva opportuna. Ne avrebbe approfittato per fare una visita molto, molto privata...
Era buio quando Aurelio arrivò alla Porta Prenestina, lasciandosi alle spalle il profumo degli orti suburbani.
L'odore delle belve destinate all'arena, rinchiuse nel vicino vivarium, arrivava fino a lui, acre di selva e di disperazione: ruggiti, ululati, nitriti riempivano la notte del lamento della ricchezza viva e pulsante di tre continenti schiavi, offerta in olocausto sull'altare insanguinato di una città sovrana che nel macabro rito del massacro trovava la conferma del suo assoluto potere.
Avvinti nelle catene, stipati nelle stive, trascinati per pianure e deserti, pochi animali giungevano vivi a Roma, per trovare subito dopo una morte certa nell'arena. Intanto il Nilo si vuotava di ippopotami, dall'Egitto scomparivano i leoni, in Mauritania si estinguevano i grandi struzzi corridori, mentre i quiriti, compiaciuti di questa colossale ecatombe, si vantavano di aver portato le strade, gli acquedotti e la civiltà dove prima non c'era che vita selvaggia...
Il dolore urlato dalle bestie prigioniere lo scosse, come se riconoscesse nelle loro grida lo stesso anelito di libertà che animava lui stesso, pronto a darsi la morte piuttosto che affrontare un'esistenza da schiavo: agli animali del circo, invece, non era concessa neppure la possibilità di scegliere. Il senatore si sorprese ad augurarsi con una certa cattiveria che le fiere vendessero cara la loro vita, prima di soccombere sotto i colpi di quelle altre belve, che avevano scelto di dimenticare di essere nate umane...
Infastidito da questi pensieri, incalzò i portatori perché si allontanassero in tutta fretta da quel luogo di pena.
I nubiani allungarono il passo, giungendo infine sotto il colombario di Statilio Tauro, dove riposavano le ceneri del costruttore del grande anfiteatro in cui Chelidone aveva trovato la morte. Qui il senatore fece fermare la lettiga e, dopo aver fornito gli schiavi di un obolo per la taverna, cominciò ad arrampicarsi tutto solo per la strada in salita, lungo le pendici dell'Esquilino. Prima di toccare il batacchio della porta, contemplò a lungo il profilo della casa che si stagliava nitido alla luce della luna, cercando di dominare un desiderio acuto di voltare le spalle e fuggire. Invece bussò.
- Ancora qui, Aurelio? Ti avevo detto di non tornare - disse la donna, riconoscendolo nel buio.
- Solo un attimo, Flaminia - pregò il patrizio, con una voce umile che non gli si confaceva.
- Va bene, entra - concesse la matrona, facendogli strada.
Poi si versò del vino e sollevò un poco il velo scuro che le celava il volto sfigurato, così da poterne bere un sorso.
- Ho bisogno di sapere un'altra cosa - disse Aurelio. - La seconda volta che Chelidone venne qui, era la sera prima del combattimento, vero?
La donna lo guardò dritto negli occhi, senza vergogna.
- Pensavo che sarebbe stato eccitante far l'amore con un uomo che il giorno dopo si sarebbe giocato la vita. Ma non ha funzionato, te l'ho detto...
- Quando è arrivato, aveva forse i riflessi lenti e l'occhio appannato?
- Sì. Il bestione giungeva dritto dalla casa di quell'attrice, ma era già mezzo addormentato. Ho dovuto fargli prendere due bagni freddi e servirgli persino un tonico, prima che riuscisse ad andarsene sulle sue gambe.
Ed ecco perché la pozione di Nissa non aveva sortito l'effetto sperato, comprese il patrizio.
- Dapprima ho creduto che l'indomani non se la sarebbe cavata, ma poi, quando sono venuta a sapere che l'avversario era particolarmente inetto, ho pensato che avrebbe potuto farcela, anche in quelle condizioni. Sembrava ebbro, come se avesse bevuto troppo vino.
- O inghiottito lacrime di papavero. Se ne fa un uso smodato, di questi tempi, a Roma. Col giro di scommesse che ruotava attorno a lui, qualcuno può aver pensato di fare il colpo grosso, propinandogli una droga abbastanza forte perché fosse lento a reagire nell'arena, ma non troppo da impedirgli di iniziare il combattimento, perché, in caso di sospensione, sarebbero saltate anche le puntate...
- Chi, allora, se non Nissa? Ma sei davvero convinto che quella stupida abbia imbastito un simile piano?
- Non lei, il suo complice, Sergio Maurico. E quando la cosa verrà fuori, il famoso avvocato sarà pronto a declinare ogni responsabilità, dando tutta la colpa alla mimula...
- È ovvio - considerò Flaminia. - Sergio Maurico se l'è sempre cavata scaricando la colpa delle sue malefatte sulla gente di cui si era servito per compierle. Risalire fino a lui è difficile: coltiva rapporti con parecchi malviventi, e ne fa assolvere altrettanti in tribunale, non sempre con mezzi leciti. Con appoggi del genere, non gli è difficile far scomparire chi gli mette i bastoni tra le ruote. Ha cominciato proprio così la sua carriera, difendendo un sicario di Seiano: l'accusa era di omicidio, suffragata da ben tre testimoni oculari. Ebbene, di due di loro non si trovò più traccia, e il terzo fu messo a tacere con una forte somma; poco dopo, comunque, morì in un disgraziato incidente, portandosi nella tomba ciò che sapeva... Aurelio, lascia perdere Maurico, io lo conosco bene: è un uomo pericoloso. Dietro la sua apparenza di cittadino al di sopra di ogni sospetto, nasconde molti segreti.
- Dimmi! - la sollecitò Aurelio, attento. - Se qualcosa bolle in pentola...
- Oh, io non so niente - rispose la donna. - E se anche sapessi qualcosa, lo terrei per me... Ne sono trascorsi di anni da quando facevo il bello e il brutto in politica, favorendo certe carriere e stroncandone altre: sono stata utile anche a te, ammettilo. Ma non è più tempo di tessere congiure; adesso sono una donna sola e malata, capace appena appena di prendersi, ogni tanto, qualche distrazione.
- Forse, se Publio fosse vissuto... - tentò Aurelio.
- Ma è morto, e comunque non avrebbe cambiato niente. Adesso vattene, e non tornare. Sto per lasciare Roma. Per sempre, stavolta. L'Urbe non è più posto per me – sussurrò la matrona. - Allora, vale.
- Vale, Flaminia - rispose il patrizio, riluttante ad andarsene.
La figura velata era immobile. Aurelio allungò lentamente la mano a sollevare la garza scura, e con le dite gelate dall'emozione sfiorò la guancia devastata dalle cicatrici.
La donna si ritrasse di colpo, guardandolo senza capire.
Aurelio le prese la mano e toccò il dito dove un tempo aveva infilato l'anello. Poi, con un gesto lieve, accarezzò il ventre che aveva portato suo figlio.
- Non è come con Chelidone - le disse sottovoce.
Gli occhi di Flaminia si inumidirono. Era la prima volta che la vedeva piangere, pensò Aurelio, attirandola a sé.